La lotta contro i demoni

1. LA LOTTA CONTRO I DEMONI di Thomas SpidlìK

La tradizione. spirituale, collocandosi nella via aperta dalla Scrittu­ra e rifacendosi anche all’ideale stoico, ha spesso paragonato l’ascesi a una lotta, a un combattimento contro i nemici dell’anima, e testi di questo tipo sono abbondanti in tutte le Chiese. Nel Practikos di Eva­grio sono frequenti espressioni e metafore di guerra, di lotta (agòn, palé, pòlemos), il monaco deve soprattutto lottare (agònizesthai, polemeìn, màchestai), contro i nemici (pòlemoi) o gli avversari (antikeìmenoi). Il combattimento spirituale è centrale anche nella spiritualità di Cassiano.

La guerra visibile e invisibile

Questa lotta si presenta però negli autori in due modi diversi. Talvolta l’anima appare come una specie di campo chiuso dove vizi e virtù, carne e spirito si danno combattimento continuo. Talvolta è il cristiano stesso che entra in lotta e, armi alla mano, cerca di abbattere le forze avverse.

E’ una guerra universale, ovunque in atto; «Come le ombre seguono il corpo», dice Doroteo, «così le tentazioni seguono i comandamenti».

Vi sono dunque lotte esterne e lotte interne, notte e giorno bisogna combattere, pensa Gregorio di Nazianzo, apertamente o in segreto, all’interno come all’esterno di sé. Evagrio parla della «guerra materiale e immateriale» (àulos pòlemos). Quelli che vivono in comunità sono in lotta anche «con i fratelli più negligenti, anche se questa guerra è molto meno opprimente» di quella condotta direttamente dai demoni «nudi». Dadiso Quatraya cita la Grande lettera di Macario «dove sono enumerate tutte le guerre in atto: contro l’amor di Dio e contro la preghiera».

I nemici che suscitano queste guerre sono smascherati già nella Scrittura: Satana, il mondo, la carne.

Necessità del combattimento

«Una vita senza prova (anexétastos bìos) non merita di essere vissu­ta» leggiamo nell’Apologia di Socrate. E’ un’idea antica che le prove siano un passaggio obbligato per avvicinarsi a Dio. Ma i discorsi del «giusto sofferente» nella letteratura assiro-babilonese non sono che monotoni lamenti, e il «giusto impalato» di Platone rende testimonianza solo alla sua giustizia.

Al contrario l’esame cui Giobbe è sottoposto evidenzia la sua umiltà e la sua fede. Sulla stessa linea i Padri richiamano gli esempi di proba­tio fidei dei giusti dell’Antico Testamento, e li interpretano come prefigurazione delle esigenze evangeliche.

Il vero «gnostico», secondo Clemente d’Alessandria, deve chiedere a Dio di essere messo alla prova: «O Signore mettimi alla prova». L’uomo provato per eccellenza è proprio il monaco (dòkimos mònachos), poiché «non è possibile acquistare la sapienza senza combatti­mento», e gli asceti vengono dunque chiamati agònizoménoi agònìstaì (podvizniki in slavo).

Per Cassiano il combattimento è un mezzo provvidenziale per perfezionarsi spiritualmente , una testimonianza d’amore che perfeziona il libero arbitrio. Secondo Doroteo l’asceta non deve neppur temere di cadere «talvolta nel fango, per ritrovare poi il cammino», perché «quelli che debbono nuotare in mare e che conoscono l’arte del nuoto s’immergono quando l’onda arriva su di loro e si lasciano andar sotto, fino a che essa sia passata; dopodiché continuano a nuotare senza diffi­coltà».

La lotta è necessaria non solo ai principianti, ma anche ai perfetti. Se nell’apàtheia dei messaliani è presente una tendenza al quietismo, Evagrio, al contrario, crede che le tentazioni aumentino via via che si progredisce nella vita spirituale. Il progresso dell’anima nell’im­passibilità può misurarsi dalla qualità e dalla forza dei demoni che l’attaccano. Quando preghiamo: «Non ci lasciar cadere nella tentazione!» non domandiamo di non essere tentati, poiché questo è impossibile, ma di non essere divorati dalla tentazione facendo ciò che dispiace a Dio. È questa la spiegazione tradizionale che leggiamo nel Prato spirituale (Jean Moschus, Le pré spiritual 209, SC 12 – 1946 – 284).

Il Maligno

Il capitolo dodicesimo dell’Apocalisse riprende e completa il racconto del Genesi, riassumendo per sommi capi la dottrina della Bibbia sul demonio e sul suo ruolo nella storia della salvezza, e rappresentando lo scontro personale che oppone l’Uomo-Dio al «seduttore» (v. 9), al «principe di questo mondo» (Gv 8,44).

In questa prospettiva i Padri interpretano diversi avvenimenti della vita di Cristo, ad esempio l’adorazione dei magi, la tentazione nel deserto, il battesimo, ma soprattutto la croce. Perché Cristo è stato crocifisso? Per crocifiggere il diavolo, risponde Teodoro Studita.

Per i cristiani la ‘vita spirituale è quindi un combattimento contro i demoni (Ef 6,12), e questa concezione tradizionale acquisisce nella spi­ritualità monastica del deserto nuovo rilievo, perché il deserto è, per eccellenza, il regno dei demoni, e il monaco che vi si ritira va dunque ad affrontarli in un combattimento corpo a corpo. La demonologia che si esprime nella Vita di Antonio, nell’opera di Evagrio e in quella di Cassiano diventata classica della spiritualità del deserto, si integra, come elemento importante, nella dottrina ascetica tradizionale.

E nonostante certi abusi di queste dottrine, i demoni, tuttavia, conservano la loro funzione cosmica, e sono detti kosmokràtores, associati ai falsi dèi, legati agli animali e alle piante. Da una parte la filosofia greca, dall’altra certe correnti giudaiche, avevano influenzato le concezioni degli autori cristiani nello spiegare l’azione dei demoni nel mondo. Ma le conclusioni pratiche sono sempre le stesse: il monaco è chiamato a purificare, per mezzo della fede in Dio e dell’ascesi, i luoghi della potenza del male, e gli eremiti abitano dunque volentieri là do­ve credono di trovare molti demoni.

La potenza dei demoni

Origene si pone questa domanda: «Se è vero che il diavolo e la sua armata sono distrutti, come mai crediamo che abbiano ancora tanta forza contro i servitori di Dio?». E risponde affermando che l’attività malefica del diavolo non si esercita che sui cattivi, dal momento che non ha più potere su coloro che sono in Cristo.

Soggetta alla provvidenza divina, l’azione dei demoni è soltanto strumento delle prove che precedono la vittoria. Così è detto di santa Melania: «Il nemico, essendosi reso conto che non otteneva nulla combattendo contro di lei e anche che, vinto, le dava delle corone molto più belle, confuso, non osò più importunarla». San Saba non teme Satana che gli è apparso sotto forma di un leone spaventoso, e a ricompensa della sua fede «Dio gli sottomise ogni bestia velenosa e carnivora».

Origene sostiene che il diavolo non è causa di peccato, come dicono «alcuni tra i semplici». Evagrio fa notare che il demonio non può raggiungere direttamente il nostro intelletto, è impotente a far nascere una conoscenza nello spirito, impotente a informarci sulle «ragioni» delle cose, può introdurre in noi soltanto delle immagini (fantasìai, eìdolon). I demoni dunque, per mezzo della «composizione» del corpo, suscitano nell’intelletto qualche «immagine», e il logismòs non è infatti altro che un’immagine».

La lotta contro i demoni si svolge, dunque, soprattutto a livello di logismòi, nel mondo immaginario delle illusioni, delle false consolazioni, degli inganni di ogni specie, e il cristiano combatte con il discernimento e con la vigilanza del cuore.

Sono necessari però anche mezzi corporali (digiunare, rivestirsi con duri sacchi, ecc.), proprio perché i demoni si servono del corpo. Il corpo, pensa Evagrio, non è in sé cattivo, ancor più può essere esso stesso una protezione contro i demoni, ed è per questo motivo che ci attaccano soprattutto durante il sonno, quando siamo senza difesa.

Osservare, spiare, epiterein, è l’occupazione abituale dei demoni nella guerra contro i monaci. «I demoni non conoscono i nostri cuori, come alcuni credono…»; soltanto con l’osservazione i demoni imparano a conoscerci, e in quest’arte, assicura Evagrio, sono abilissimi.

Sapendo tutto questo, l’asceta è convinto, come dice Cassiano, «che i demoni non possono nulla contro gli uomini…». Nella lotta le forze in campo sono in equilibrio e l’anima vincerà, vorrà vincere, e sarà sconfitta se non vorrà vincere. Essere vinti significa cadere nella schiavitù del Maligno.

L’esorcismo

L’allontanamento dei demoni è, per gli scrittori cristiani del II e del III secolo, un segno della natura divina del cristianesimo. A partire dalla prima metà deI III secolo la pratica dell’esorcismo comincia a essere regolamentata, e sarà conservata dalla Chiesa sotto due forme diverse; quella degli esorcismi praticati su malati considerati posseduti e quella degli esorcismi integrati nella liturgia preparatoria al battesimo.

Ma queste pratiche non sono che un’applicazione particolare della fede nella forza di Dio, della preghiera e dell’ascesi cristiana. Rivolgendosi ai pagani, Origene sottolinea come le Scritture operino ciò che dicono, siano cioè una forza. Evagrio spiega che la parola divina non è soltanto un cibo spirituale, è anche un’arma. «Nelle parole della Scrittura si trova il Signore di cui i demoni non possono sopportare la presenza», dice Atanasio.

La stessa cosa viene detta del nome di Gesù, del segno della croce e di ogni preghiera, soprattutto della salmodia. Infine, dal momento che le virtù sono una partecipazione a Cristo, è per mezzo delle opere di Dio che i suoi nemici saranno dispersi. Tutta la vita spirituale purifica dunque il mondo e concorre a distruggere la potenza del male.

2. LOGISMÒI

La lotta contro i cattivi pensieri

«Tutto il combattimento dell’uomo avviene nei pensieri, dice lo ‘Pseudo-Macario, e consiste nell’eliminare la “materia dei pensieri cattivi».

Origene ha tratto dal vangelo di Matteo (cap. 15) questa affermazione: «La sorgente e il principio di ogni peccato sono i pensieri cattivi»; è questa la fonte del concetto di «lotta invisibile».

Secondo la spiegazione di Evagrio «con i secolari i demoni lottano utilizzando di preferenza gli oggetti…». La «lotta visibile» riguarda dunque i pragmata, il contatto con essi fa nascere le passioni. Per resistere al demonio in questo campo, il mezzo principale è l’astinenza, la rinuncia agli oggetti.

«Ma con i monaci (i demoni lottano) più spesso utilizzando i pensieri, perché, a causa della solitudine, essi non hanno gli oggetti». La lotta visibile è considerata più facile, ed è tipica dei principianti. Dal punto di vista teologico e psicologico, la lotta nei pensieri, «la guerra interiore», «la pràxis interiore» (vnutrennoe delanie in slavo) è più importante, perché tocca la radice dei peccati. Così, il peccato e la guerra kat’enérgeian, che si fa mediante gli oggetti, vengono contrapposti alla guerra interiore immateriale katà diànoian. A questo proposito un’ammoni­zione di Massimo il Confessore, conforme a tutta la tradizione dice: «Guardati dall’abusare dei tuoi pensieri, altrimenti arriverai fatalmente ad abusare anche delle cose; non si peccherebbe mai in azione se non si peccasse dapprima nel pensiero».

Il termine « logismòs »

Logismòs (dal verbo logìzomai) può designare anche la facoltà di pensiero, il lògos, la ragione, l’hegemonìkòn, lo spirito, più spesso però denota il prodotto dell’attività intellettuale, il pensiero (annoia). Bisogna inoltre notare come sia soprattutto la diànoia, la ragione discorsiva a produrre i pensieri, e non il nous, la facoltà intuitiva

Certo, non tutti i pensieri sono cattivi, non tutti sono un ostacolo alla conoscenza di Dio, ma soltanto quelli «che assalgono (l’intelletto) partendo dalla parte irascibile e dalla parte concupiscibile (dell’anima) e che sono contro natura». Se il pensiero cattivo è «semente di peccato» al pensiero buono si attribuisce la paternità delle virtù. Bi­sogna, dunque, coltivare i pensieri buoni nel cuore, e la stessa voce della coscienza si presenta come un logismòs.

Origene distingue fra pensieri puri (logismòs katharòs), e altri impu­ri (akàtharos). Ma vi sono molte altre classificazioni, il logismòs puro è detto, ad esempio, logismòs theiòs, pensiero divino, pneumatikòs, spirituale, eusebes, devoto, agathòs, buono, emphytòs, naturale, gnostikòs, «gnostico», adatto alla contemplazione, hàgios, santo, ecc.

L’attenzione degli autori spirituali, tuttavia, si concentra sul pen­siero impuro (logismòs poneròs), detto anche daimonikòs, demonia­co, empathòs, appassionato; anthròpinos, «umano» (nel senso peggiorativo); idios, proprio (cfr. il concetto di «volontà propria»).

Molto spesso la parola logismòs (generalmente al plurale logismòi) basta da sola a indicare i pensieri cattivi. Il Nuovo Testamento offre un esempio unico, ma notevole, di logismòs (al plurale) adoperato senza ag­gettivo ma con senso peggiorativo (2Cor 10,4) e numerosi esempi del termine dialogìsmòs (singolare e plurale) inteso anch’esso in senso peggiorativo.

La definizione di «logismòs»

Evagrio dà del logismòs una definizione descrittiva, molto lunga; ap­prossimamente si può tradurre così: «Il logismo demoniaco è immagine dell’uomo sensibile apparsa nella facoltà discorsiva; per mezzo di essa la mente è mossa come da una passione; allora dice o fa segretamente qualcosa contro la legge, spinta verso il suo idolo»

Il testo è complesso, ed è piuttosto difficile darne una traduzione, a un tempo, esatta e comprensibile. Tuttavia contiene alcuni elementi importanti. Il logismòs non è un «pensiero» nel vero senso della parola, è piuttosto un’«immagine», un fantasma che sorge nell’uomo dotato di sensibilità. Questa immagine non ha origine dal nous, dallo spirito, ma dalla parte inferiore della nostra facoltà conoscitiva, dalla diànoia, sede del ragionamento per pro e contro. Quest’immagine è, tuttavia, capace di attrarre, di muovere lo spirito, e suscita allora un moto passionale che spinge l’uomo a decidere segretamente contro la legge di Dio o quan­tomeno a dialogare con questa immagine che si presenta come una spe­cie di idolo e che andrebbe invece cacciata.

Pensiero «appassionato»

La definizione di logismòs proposta da Evagrio è troppo complicata. Concretamente era più facile imparare a distinguere un «pensiero semplice» da un «pensiero appassionato». Ecco un testo caratteristico di Mas­simo il Confessore: «Una cosa è un oggetto, altra è una rappresentazione, altra ancora una passione. Un uomo, una donna, del danaro, ecco degli oggetti; il semplice ricordo di questi oggetti, ecco una rappresentazione; un affetto sregolato o un odio cieco per questi stessi oggetti, ecco una passione».

Doroteo parla di un’inclinazione, di una prospàtheia, una sorta di «volontà propria» che accompagna un pensiero che, in sé, potrebbe essere puro.

Il cammino di purificazione si presenta allora così: «Tutta la lotta che il monaco conduce contro i demoni tende a separare le passioni dalle rappresentazioni. Altrimenti è impossibile mantenere la propria libertà interiore alla vista degli oggetti».


Origine dei pensieri cattivi

Origene mette spesso in correlazione logismòs e pneuma o anche daìmon. Dietro il termine logismòs, nel senso in cui lo impiega Evagrio seguendo Origene, è riconoscibile una nozione importante dell’etica giudaica, espressa dalla parola yesèr (pensiero), concepito nell’uomo come un qualcosa di concreto, e quasi di personale. Yesèr in greco è stato tradotto con diaboùlion.

Già nella Vita d’Antonio trova espressione la dottrina secondo cui i cattivi pensieri sono l’arma usata dai demoni contro gli anacoreti, ed Evagrio usa, in modo indifferenziato, il «demonio» o il «pensiero» o lo «spirito» di un determinato vizio.

Questa identificazione evidenzia bene come i logismòi non appartengano alla natura umana e non provengano direttamente dalla realtà creata da Dio, nella quale non c’é nulla di male. Sono invece i demoni ad agire sullo spirito umano attraverso la «modificazione dello stato del corpo». Massimo il Confessore ipotizza l’esistenza di «tre vie che introducono nello spirito i pensieri appassionati: la sensazione, la complessione fisica, la memoria».

Aggiungiamo che la tirannia del demonio sugli uomini si esercita soprattutto per mezzo delle passioni, e che sono proprio i ricordi passio­nali a fornire la materia principale dei pensieri cattivi. Gli antichi filo­sofi discutevano la questione dal punto di vista psicologico: «E’ la rappresentazione che scatena le passioni, o sono le passioni a scatenare le rappresentazioni?». Evagrio avverte giustamente che, dal punto di vista morale, la causalità è reciproca: «Se abbiamo un ricordo appassionato di una cosa, vuol dire che abbiamo accolto in precedenza gli oggetti con passione e, viceversa, tutti gli oggetti che accogliamo con passione ci lasciano dei ricordi appassionati»

Le passioni sconvolgono lo stato del cuore, e si può dunque ripete­re, col vangelo, che è «dal cuore che provengono i cattivi pensieri» (Mt 15,1).

E’ nota invece la tendenza del messalianismo a rovesciare la psicolo­gia spirituale degli ortodossi. Nel caso in esame si sostiene che i pensieri non vengono dal «di fuori», ma è invece il cuore umano a essere un abis­so in cui si mescolano le aspirazioni divine e i «serpenti». Teofane il Recluso precisa i limiti di accettabilità di questa proposizione sostenen­do che, una volta viziato, ferito dall’esterno, il cuore diventa una fonte di movimento passionale. L’ascesi non cerca quindi di guarire la “natura”, ma una sua perversione.

Gli ortodossi sono, dunque, in linea di principio, tutti d’accordo con Evagrio: origine di un pensiero cattivo non può essere né Dio, né gli angeli, né la natura, ma soltanto i demoni e la libera decisione dell’uomo.

Gradi di penetrazione di un pensiero cattivo nel cuore

Il meccanismo della tentazione, nei suoi diversi momenti e nel suo ordine interno, è stato molto ben analizzato dagli spirituali orientali, soprattutto da quelli appartenenti alla cosiddetta spiritualità «sinaitica» (Nilo, Giovanni Climaco, Esichio, Filoteo), che hanno descritto i momenti che precedono il peccato e le mutazioni psicologiche che seguono a questa decisione volontaria.

1) C’è dapprima la prosbole, la suggestione, che è «una semplice idea o un’immagine suggerita allo spirito o al cuore» dal nemico. Il verbo hypobàllein è il termine usato da Evagrio per designare le suggestioni di origine diabolica (e talvolta angelica).

2) Un secondo momento è rappresentato dal syndyasmòs, l’avvicinamen­to, un legame che consiste nel «conversare» con l’immagine di origine diabolica e che si risolve nella scelta fra fare e non fare.

3) Synkatàthesis è «il consenso al piacere proibito proposto dal pensiero», è il momento del peccato vero e proprio. Il vocabolo è di provenienza stoica.

Della pàle (lotta interiore) si parla spesso, ed è come un momento decisivo perché accompagna il consenso, precedendolo o seguendolo.

4) Termine ultimo di questo processo è la «prigionia», aichmalosìa, l’at­trazione violenta del cuore, la passione, pàthos, un’abitudine viziosa che finisce per diventare come una seconda natura, prodotta da una lunga serie di consensi.

Questa classificazione è comune in Oriente, pur con alcune varia­zioni. Ad esempio per Giovanni Climaco a succedersi sono:

– prosbole,

– syndyasmòs,

– synkatàthesis,

– aichmalosìa,

– pàle,

– pàthos.

Filoteo Sinaita enumera soltanto quattro gradi: :

– prosbole,

– syndyasmòs,

– aichmalosìa,

– pàthos.

Teofane il Recluso distingue:

– il prilog (la suggestione),

– il vnimanie (l’attenzione),

– lo slazdenie (il diletto),

– lo zelanie (il desiderio),

– la resimost (la risoluzione),

– il delo (l’opera).

In Occidente Agostino distingue fra: suggestus – delectatio – consensus, ma parla anche di lotta, e dell’opera peccaminosa, e della consuetudo nella malizia.

3. LA CUSTODIA DEL CUORE

Evitare di consentire al peccato (o synkatàthesis) è già molto impor­tante, ma non è la perfezione, e i cristiani devono invece tendere alla perfezione, alla pace del cuore, all’hésychia, all’amerimnia, la tranquilli­tà, la libertà dalle preoccupazioni riprovevoli che consiste proprio nell’apòthesis noemàtn, «eliminazione dei pensieri (cattivi)».

«Eliminazione dei pensieri»

È possibile evitare l’insorgere delle prime «suggestioni»? Origene ritiene che sia impossibile liberarsene interamente, e che le anime convertite a Dio debbano «sopportare le battaglie dei pensieri»; è possi­bile però non soffermarsi su queste suggestioni, non «conversare» con questi fantasmi, come Eva invece fece col serpente. La prudenza chiede «che si uccidano subito questi figli di Babilonia», che si «schiacci la testa del serpente» e non lo si lasci entrare nel paradiso del cuore. Per esprimere questa idea gli spirituali d’Oriente ricorrono a espressioni e spiegazioni diverse; ma fondamentalmente sinonimiche.

Sede dell’intelligenza, dello spirito, è il cuore, e alcuni autori parla­no di phylake kardìas, custodia del cuore, térésis noòs, custodia dello spirito, phylake ton éndon, custodia dell’interiore. Si usa anche custodire, phylàssein, nella sua forma assoluta, “custodirsi”, («custodisci te stesso con cura», terei seautòn akribos, è il motivo ricorrente di un opuscolo attributo ad Ammona).

Per custodirsi bisogna essere però sobri e vigilanti, «neptici» (cfr. 1Pt 5,8). Antonio oppone agli assalti dei demoni la gregorsis e la nepsis, vigilanza e sobrietà. Per il sinaita Esichio «la nepsis è un metodo spirituale, che riesce a liberare totalmente l’uomo, con la grazia di Dio, dai pensieri e dalle parole macchiate di passione e dalle azioni malvagie, a condizione che duri e che proceda allegramente…». Spesso citata è una sentenza dì Evagrio, che contiene una suggestiva allitterazione delle parole prosoche e proseuche, attenzione e preghiera: «L’attenzione in cerca d’orazione troverà l’orazione, perché se c’è una cosa che segue l’orazione è l’attenzione. Bisogna dunque applicarsi in questa». Si arriverà poi a dire che la prosoche è la madre della proseuche.

La vigilanza alla «porta del cuore» è, innanzitutto, una difesa per respingere immediatamente i pensieri intrusi. E’ questo un tema comune a parecchi apoftegmi: «Sii il portinaio del tuo cuore, affinché lo straniero non entri, dicendo: Tu sei dei nostri, o dei nostri nemici?».

Metodo per combattere i pensieri malvagi

«Non bisogna obbedir loro (ai demoni), ma piuttosto fare il contrario». In via generale, il metodo di lotta è la praxis in tutta la sua estensione, perché purifica il cuore. Soprattutto l’enkràteia, l’astinenza, è detta già da Filone” ophiomàches (Lv 11,12), «che combatte il serpente». Evagrio sottolinea però come la maggioranza degli esercizi che permettono di lottare contro il demonio non possano essere praticati costantemente, soltanto la preghiera deve essere costante.

Il metodo per eccellenza contro i pensieri cattivi si chiama «contraddizione» (antirrhesis). Gesù, tentato dai demonio, replica citando le Scritture, senza entrare in discussione col Maligno (Mt 4,3-11). Si legge di certi asceti che conoscevano a memoria «tutta la Scrittura», cioè sapevano rispondere coi testi sacri a ogni questione loro proposta, ma so­prattutto sapevano citare la Bibbia contro ogni suggestione diabolica. Il manuale classico di questa arte è l’Antirrhéticos di Evagrio, diviso in otto parti, una per ciascuno degli otto vizi. A proposito di ogni pensiero sono citati i testi scritturistici atti a scacciarlo. Sono in tutto 487, a partire dalla Genesi fino all’Apocalisse.

Si tratta però di uno sfoggio culturale di cui un monaco senza cultura è incapace! La pratica sarà dunque molto più semplice e l’invocazione di Gesù basterà a scacciare tutti i demoni, sostituendo così questi complicati cataloghi

Discernimento degli spiriti

La Bibbia presenta all’uomo delle scelte, a cui egli non può sottrarsi (Gn 2,17; 12,4 ecc.) Queste scelte vengono però ostacolate; infatti contro la voce divina, misteriosa, un’altra voce si fa sentire, quella del peccato, di Satana, anch’essa misteriosa. Come discernere l’una dall’altra? Testimoniare la voce di Dio è stato il compito dei profeti, e i libri sapienziali sono stati scritti proprio per insegnare a distinguere la voce della sapienza da quella della follia, la voce dei giusti da quella degli empi. Nelle epistole del Nuovo Testamento figura esplicitamente l’espressione «discernimento degli spiriti» (1Cor 12,10; lGv 4,1).

Questo problema non cessa di occupare un posto di primo piano nella letteratura spirituale. Origene discute attentamente della diversa ori­gine degli spiriti capaci di agire in noi. Antonio e i monaci semplici in Egitto ne parlano in modo più concreto, descrittivamente; al contrario l’insegnamento di Evagrio è sistematico. Le regole fondamentali formulate da Cassiano sono le più complete del suo tempo, e dopo di lui Diadoco di Foticea, che combatte le dottrine messaliane, dà grande spazio alla problematica del discernimento tra le vere e false consolazi­ni e desolazioni. Continuando questa tradizione, in tempi più” recenti, Teofane il Recluso interpreta le regole riprendendo il testo di L. Scupoli.


Discernimento come dono di Dio, arte spirituale e frutto di esperienza

Per san Giovanni l’esperienza spirituale è un’«unzione»; uno stato di luce (lGv 2,20.27). Secondo Diadoco di Foticea lo Spirito Santo è la «lampada» di questa scienza spirituale. Per Paisij Velickovskij il discernimento è «la comprensione spirituale data da Dio».

L’esperienza del discernimento è dunque inseparabile dalla pratica dei comandamenti, dalla carità (cfr. lGv 2,3; Fil 1,9). Antonio ha det­to: «E’ necessaria molta preghiera e ascesi affinché, dopo aver ricevuto dallo Spirito il carisma del discernimento degli spiriti, si possa conoscere ciò che concerne ciascuno dei demoni…».

La conoscenza degli spiriti, inoltre, è frutto di lunga osservazione: «Dopo una lunga osservazione (metà polles katatereseòs) – dice Evagrio – abbiamo riconosciuto questa differenza tra i pensieri angelici, i pensieri umani e quelli che vengono dai demoni». I demoni si rivelano infatti per il loro comportamento, per la frequenza e il modo dei loro attacchi, ma soprattutto per i pensieri che ispirano. Si può acquistare un «senso» speciale, un’intuizione spirituale, fino a diventare capaci di riconoscere un cattivo pensiero «dal cattivo odore caratteristico dei demoni»

Le regole psicologiche» a seconda del modo di agire degli spiriti

Se Evagrio distingue soprattutto le diverse categorie di pensieri che i demoni suggeriscono all’uomo, Antonio osserva invece soprattutto gli stati psicologici prodotti dall’azione degli spiriti nell’anima. Il grande discorso di Antonio enuncia la

Regola d’oro del discernimento:

Le buone aspirazioni fanno nascere «una gioia inesprimibile, il buon umore, il coraggio, il rinnovamento interiore, la fermezza dei pensieri, la forza e l’amore per Dio»; le altre, invece, portano con sé «paura dell’anima, turbamento e disordine dei pensieri, tristezza, odio contro gli asceti, acedia, afflizione, ricordo dei parenti, timore della morte e infine desideri cattivi, pusillanimità per la virtù e disordine dei costumi».

Più tardi questa regola è stata semplificata in un assioma: Quidquid inquietat est a diabolo. Evagrio parla di «stato pacifico» e di «stato turbato». In seguito gli autori si resero però conto del fatto che distin­guere una «consolazione» da una «desolazione» non è sufficiente a discernere la loro origine: il demonio è infatti un ingannatore. «Quando il nostro intelletto incomincia a sentire la consolazione dello Spirito Santo – nota Diadoco – allora anche Satana consola l’anima con un sentimento di finta dolcezza, nel riposo della notte, quando si soccombe all’influenza di un sonno leggerissimo».

A ben guardare già l’istruzione di Antonio non si limitava a parlare di gioia o, al contrario, di tristezza, ma sottolineava piuttosto la contrapposizione più sottile fra katàstasis e akatastasìa. Si potrebbe, dunque, dire che le manifestazioni angeliche sono «secondo natura», mentre quelle demoniache turbano l’ordine naturale, che è buono.

Anche se il demonio prende la forma di un angelo di luce (2Cor 11,14), con la farsa apparenza di luce», «dimena gentilmente la coda», lo si riconosce tuttavia dalle opere, dall’effetto che produce sull’immagine di Dio nell’anima, ed è questo il criterio decisivo del discernimento fra «stato pacifico» e «stato turbato».

In particolare si esortano i monaci a fare attenzione ai punti deboli delle loro virtù, oppure all’immoderazione nella loro ascesi. «Quando, nella loro lotta contro i monaci, i demoni sono impotenti, allora si ritirano un pò osservando quale virtù è negletta in quel momento, ed è li che fanno subito irruzione per fare a pezzi l’anima disgraziata». Spingendo l’ascesi all’esagerazione, i demoni cercano di «distoglierci da ciò che può essere fatto e di costringerci a fare ciò che è impossibile».

La rivelazione dei pensieri 

Il discernimento dei pensieri è l’arte delle arti, inaccessibile dunque a un principiante, che deve invece rivelare i suoi pensieri a un padre «diacritico». Questa pratica si chiamerà exagòreusis. Nei monasteri cenobitici quest’obbligo del resoconto di coscienza è obbligatorio per tut­ti, principianti e non. Teodoro Studita lo chiama «un gran mezzo di salvezza» e non si rallegra affatto quando i monaci ricorrono meno spesso al loro abate.

Il principio è stato formulato da Antonio stesso: «Se può, il monaco deve confidare agli anziani tutti i passi che fa, tutte le gocce d’acqua che beve nella sua cella». Di fronte a questa necessità non c’è amore del silenzio che tenga; ciò che conviene, al contrario, è l’asiopeton, cioè, come spiega Barsanufio, «non tacere mai i propri pensieri».

L’exagòreusis non è una confessione dei peccati, o almeno non è questo il suo primo e unico scopo; è invece una confessione dei «pensieri», volta a stabilire se sono buoni o cattivi. Molti apoftegmi sono proprio il racconto di un’interrogazione e di una risposta, sempre però di poche parole. Anche le lettere di direzione sono caratterizzate dalla medesima concisione.

I monaci studiti ripetevano la confessione tutti i giorni all’igumeno, ma molti typika abilitano a ricevere le confidenze intime anche altri maestri spirituali. Doroteo, che giudica questa pratica indispensabile per la salvezza; la motiva così: «Essendo appassionati, non dobbiamo assolutamente fidarci del nostro cuore; perché una regola contorta rende contorto anche chi è retto» e la sua quinta Istruzione ha per titolo: «Non bisogna seguire il proprio giudizio».

L’esame di coscienza

Per rivelare i pensieri bisogna esaminare ciò che avviene nell’anima, e la pratica dell’esame quotidiano di se stessi è raccomandata, in primo luogo, nella letteratura pastorale. Il Padre che si è più spesso occupato di questo argomento è Giovanni Crisostomo, ma è alla letteratura monastica siropalestinese del IV secolo che bisogna rivolgersi per trovare le prescrizioni più minuziose sul metodo da seguire. L’autore che fornisce al riguardo l’insegnamento più esplicito è Doroteo di Gaza. La pratica psicologica è molto simile a quella dell’esame di coscienza diffuso nel tardo stoicismo, ma lo scopo è diverso. Per Doroteo non si tratta di un semplice «ritorno in sé», ma ci si esamina in vista dell’ exagòreusis, e questo esame è un elemento della direzione spirituale.

Giovanni Climaco racconta che i monaci tenevano un libricino sul quale annotare le colpe e i pensieri di ogni giorno. E aggiunge: «Se qualcuno si vede particolarmente dominato da qualche vizio, deve armarsi contro questo nemico. Perché se noi non superiamo proprio quello, non trarremo nessun frutto dalla vittoria riportata sugli altri».

L’esame generale praticato costantemente diverrà di per sé un «esame particolare», e riceverà più tardi in Occidente forma e metodo.

4. GLI OTTO PENSIERI


Teoria degli otto pensieri cattivi principali o «generici» 

«Tutti i pensieri demoniaci introducono nell’anima delle rappresentazioni di oggetti sensibili». «Conosceremo i demoni, in base ai pensieri, e conosceremo i pensieri in base agli oggetti». Queste considerazioni hanno condotto Evagrio a fondare il discernimento degli spiriti su una base nuova, di tipo schematico.

Il suo insegnamento è condensato nel sesto capitolo del Trattato pra­tico: «Otto sono in tutto i pensieri generici (hoi genikotatoi logismòi) che comprendono tutti i pensieri:

– il primo è quello della golosità (gastrimargìa),

– poi quello della fornicazione (porneia),

– il terzo quello dell’avarizia (phylargirìa),

– il quarto quello della tristezza (lype),

– il quinto quello della collera (orge),

– il sesto quello dell’accidia (akedìa),

– il settimo quello della vanagloria (kenodoxìa),

– l’ottavo quello dell’orgoglio ( hyperephanìa).

I capitoli che seguono analizzano questi otto pensieri ed espongono i rimedi per questi vizi. La teoria degli otto logismòi è una delle parti principali della dottrina di Evagrio, e a partire da lui ha avuto grande rilievo nella storia della spiritualità.

Alla fine del V secolo già Gennadio di Marsiglia si chiedeva se Evagrio fosse stato il primo a insegnare questa teoria. Origene aveva infatti già formulato elenchi di vizi non privi di analogie con quelli di Evagrio, e sicuramente quest’ultimo riprende da Origene il simbolismo della conquista di Canaan sotto la guida di Giosuè-Gesù. Seguendo Deuteronomio 7,1 vi si dice infatti che sette sono le «nazioni oppo­ste al popolo d’Israele», ma otto sono invece i vizi «perché gli Ebrei sono già usciti dall’ Egitto». Nonostante queste coincidenze, la lista di Evagrio sembra però ricollegarsi a una tradizione più ampia. Le diverse letterature dell’epoca ellenistica offrono infatti un gran numero di cata­loghi di vizi, e anche nel Nuovo Testamento ne troviamo diversi esempi. Tra gli otto vizi, quello a proposito del quale si manifesta la mag­giore originalità di Evagrio è il sesto, l’acedia, tentazione per eccellenza del solitario.

Ordine dei «logismòi» e lista dei Latini

Passata nell’opera di Giovanni Damasceno, la lista evagriana è divenuta parte integrante dell’insegnamento tradizionale, salvo una leggera indecisione circa la tristezza e la collera, che compaiono talvolta invertite nell’ordine. Quali motivi stanno però all’origine di questo ordine?

Evagrio sostiene che le tre tentazioni di Gesù nel deserto sarebbero state, nell’ordine, quelle della gola, dell’avarizia e della vanagloria., Questi tre logismòi costituirebbero, dunque, lo schema base della lista e tutti gli altri ne discenderebbero. L’ordine del catalogo corrisponde però a una successione empirica, a seconda del progresso spirituale.

E’ nota la fortuna che ebbe questa classificazione dei vizi in Occi­dente, dopo Cassiano. Nella sua evoluzione un ruolo decisivo l’ebbe Gre­gorio il Grande, autore dei Moralia. Questi conservò i termini di Cassiano, con l’eccezione dell’acedia, introducendo in compenso l’invidia e mettono fuori elenco la superbia, che, come la filautia in Oriente, viene considerata regina dei vizi. Ridusse così la lista a sette termini. Cambiò anche l’ordine ispirandosi alla versione della Vulgata di Sir 10,15: Initium omnis peccati est superbia. Più tardi vanagloria e orgoglio verranno fusi e si costituirà così la classificazione definitiva dei sette peccati capitali che, a partire dal XIII secolo, si è imposta in Occidente.

Le differenze tra la lista degli Orientali e quella dell’Occidente sono trascurabili. L’invidia, che figura al posto della tristezza, è infatti una forma particolare di tristezza, motivata dal bene altrui. Se nell’acedia si sottolinea soprattutto la pigrizia, non si tratta che di un punto di vi­sta più specifico. Si può dire cioè che l’ordine latino procede dal punto di vista dogmatico, quello degli Orientali è invece più psicologicamente caratterizzato e per questo fu più utilizzato nell’insegnamento pratico degli autori spirituali.

La golosità 

Gli autori cristiani hanno di preferenza utilizzato gli esempi viventi di golosità offerti loro dalla Scrittura: Eva, Esaù, Oloferne… La golosità è al principio delle passioni, come Amalek è il principe delle nazioni.

Clemente d’Alessandria distingue tre manifestazioni di questo vizio: l’opsophagìa, o l’uso immoderato dei cibi delicati, la gastrimargìa, «follia del ventre», o ghiottoneria, la laimargìa, «follia della gola».

Cassiano distingue tra la golosità che spinge il monaco a mangiare prima dell’ora prescritta, quella che incita a mangiare troppo, e quella, infine, che gli fa ricercare la qualità cibo, la soddisfazione del gusto.

Evagrio intende per golosità la tentazione che spinge il monaco ad attenuare i ri­gori del suo digiuno, col pretesto che l’ascesi nuoce alla salute.

Giovanni Climaco parla anche dei desideri, delle immaginazioni, dei sogni, che provano come il desiderio di cibo non sia ancora perfettamente vinto. Un difetto particolare presso i monaci era quello della latrophagìa, il mangiare di nascosto.

Si elencano anche i mezzi corporali per vincere questo vizio, ma Cassiano aggiungeva: «Non potremo mai disprezzare le voluttà dei cibi terreni, se l’anima… non trova una gioia più grande nella contemplazione».

La fornicazione

Spesso viene posto in rilievo il legame esistente tra golosità e fornicazione; quest’ultima è, invece, considerata incompatibile con la vanagloria.

Evagrio definisce la fornicazione come «il desiderio di molti cor­pi». Negli Apoftegmi sono distinti tre «movimenti del corpo»: uno naturale (physike kìnesis, il naturalis carnis motus di Cassiano), un secondo prodotto dall’eccesso di cibo e di bevanda, e un terzo provocato dai demoni. «Se i pensieri scatenati da lui [il demonio] non sono accompagnati da passione», allora, pensa Evagrio, non saranno per noi un impedimento alla scienza di Dio»

L’avarizia 

Secondo Massimo il Confessore «tre ragioni fanno amare il danaro: la tendenza al piacere, la vanità, la mancanza dì fede; la più grave delle tre è la mancanza di fede» È soprattutto a questa terza ragione che pensa Evagrio quando dice che il demone dell’avarizia suggerisce il sentimento d’insicurezza. Giovanni Climaco considera questo vizio co­me una forma di «idolatria», fiducia nella creatura.

Al pericolo dell’avarizia erano esposti soprattutto i monaci solitari o idioritmici, tentati di accumulare, col pretesto di fare del bene agli altri e di distribuire elemosine, mentre di fatto «è impossibile che la carità coesista in qualcuno assieme alle ricchezze».

La tristezza 

La tristezza è definita da Evagrio come steresis kedones, frustrazione di un piacere o anche conseguenza della collera. A seconda dell’oggetto di questo desiderio frustrato bisogna distinguere la tristezza «secondo Dio» (il pénthos) e la tristezza come vizio, quando essa, come dice Giovanni il Solitario, si riferisce «a oggetti mondani, quando è corporale».

Giovanni Crisostomo sostiene che non c’è male peggiore della tristezza, perché essa spezza la volontà e «si attacca non soltanto alla carne, ma anche alla stessa anima…, [è] un carnefice continuo che rovina la forza dell’anima». Crisostomo esorta dunque Olimpia, donna virtuosa, a vincere 1’athymìa, «la tirannia dello scoraggiamento». L’aba­te Isaia dice che lo spirito di tristezza «mette in opera numerosi strumenti di caccia, fino a che ti abbia tolto ogni vigore»

Crisostomo oppone alla tristezza la pazienza cristiana; l’abate Isaia il pénthos, la tristezza secondo Dio. Prima di lui Evagrio ha scritto: «Colui che fugge tutti i piaceri del mondo è una cittadella inaccessibile al demone della tristezza»

Della tristezza parlano molti autori russi. Teofane il Recluso sa che le consolazioni e le desolazioni sono soltanto tappe nel cammino della vita interiore e stabilisce delle regole di condotta per approfittarne spiritualmente

La collera 

La definizione della collera come «ebollizione della parte irascibile» (zésis thymou), attribuita da Seneca ad alcuni autori stoici, viene ripresa da Evagrio. Si tratta di «un moto contro colui che ha fatto un torto o sembra averlo fatto». Come anche nella tristezza, si può distinguere un’attività irascibile naturale e un’attività «contro natura». «E’ proprio della collera – dice Giovanni Climaco lottare contro i demoni». Evagrio considera il thymòs una grande forza «che è distruttrice dei pensieri (cattivi)». La collera non dovrebbe, invece, dirigersi contro gli uomini. Nicone della Montagna Nera consiglia tuttavia di distinguere due diversi casi: «Bisogna agire secondo l’intelligenza spirituale e il senso delle Sacre Scritture, con un cuore misericordioso e libero; irritarsi per le cose carnali è contrario alla pietà; bisogna però riprendere la mancanza di doni spirituali»

Secondo l’opinione di Giuseppe di Volokolamsk la collera deve rivolgersi anche contro gli eretici ed egli commenta in modo curioso la parola del salmista (Sal 4,5) «Irritatevi» contro l’eretico, per non commettere peccato di negligenza.

La collera ha l’effetto di accrescere il thymòs, che ci porta, secondo Evagrio, verso lo stato demoniaco. Egli enumera quattro segni che seguono al risentimento: la collera rende l’anima furiosa tutto il giorno, soprattutto nelle preghiere, riporta alla memoria il volto di colui che ci ha contristato e causa incubi e terrori notturni. La cosa importante è che la collera turba l’attività normale dell’intelletto, che è la contemplazione. Per questo la mnesikakìa, il ricordo delle offese, è un ostacolo alla preghiera. Associata all’odio, la collera fa nascere un falso desiderio della vita solitaria, mentre l’ospitalità, mezzo di riconciliazione, calma gli sp­riti eccitati.

Antonio consigliava ai monaci di meditare continuamente quel che dice l’Apostolo in Efesini 4,26: «Che il sole non tramonti sulla vostra ira». Doroteo sostiene che bisogna per prima cosa recidere la radice di questo vizio, che consiste nel giudicarsi superiori al prossimo.

Evagrio riassume i rimedi in una sentenza: «Quando la parte irascibile è agitata, la salmodia, la pazienza e la misericordia la calmano».

L’acedia

Nella Vita di Antonio e negli scritti di Origene il termine akedìa conserva ancora il senso che gli dava l’uso classico: negligenza, mancanza d’interesse (cfr. Sal 118,28; Is 61,3). Ma è già circondato da termini che l’orientano verso l’interpretazione evagriana: fiacchezza (deilìa), ab­battimento (katepheia), tristezza (lype) ecc. Evagrio è il primo, almeno sembra, ad aver identificato il demone dell’acedia col «demone di mez­zogiorno» del Salmo 90,6.

I traduttori copti traducono la parola con pehloped, stanchezza (del cuore), i Siri con quta re’ yana, accasciamento dello spirito, gli Slavi con unynie, frustrazione. Il latino taedium fu utilizzato in seguito, ma Cassiano conserva la parola greca acedia.

Evagrio traccia un quadro molto pittoresco del monaco in preda all’acedia: «Il demone dell’acedia, che è chiamato anche demone di mezzogiorno, è il più pesante di tutti; attacca il monaco verso l’ora quarta e assedia la sua anima sino all’ora ottava. Dapprima fa che il sole appaia lento a muoversi, o immobile, e che il giorno sembri avere cinquanta ore. Poi lo spinge ad avere gli occhi continuamente fissi sulle finestre, a saltar fuori dalla sua cella, a osservare il sole per vedere se è lontano dalla nona ora e a guardare di qua e di là…

Inoltre, gli ispira avversione per il luogo in cui si trova, per il suo stesso stato di vita, per il lavoro manuale e, di più, gli suggerisce l’idea che la carità è sparita tra i suoi fratelli e che non c’è nessuno per consolarlo. E se trova qualcuno che in quei giorni abbia contristato il monaco, il demone si serve anche di questo per aumentare la sua avversione. Lo conduce allora a desiderare altri luoghi, dove potrà facilmente trovare ciò di cui ha bisogno, ed esercitare un mestiere meno faticoso e con maggior guadagno; aggiunge che il piacere al Signore non è questione di luogo: dappertutto infatti, egli dice, la divinità può essere adorata. Unisce a ciò il ricordo dei suoi parenti e della sua esistenza di un tempo, gli fa notare la lunghezza della vita, ponendo davanti ai suoi occhi le fatiche dell’ascesi; insomma impiega, come si suol dire, tutti i suoi espedienti perché il monaco abbandoni la sua cella e rifugga il luogo di combattimento. Questo demone non è seguito immediatamente da nessun altro: uno stato pacifico e una gioia ineffabile sopravvengono nell’anima dopo la lotta».

Non è facile precisare quale sia la differenza tra l’acedia e la tristezza. La tradizione monastica orientale le distingue per sottolineare una circostanza speciale: l’acedia, come la definisce Evagrio, è infatti legata allo stato di vita anacoretico e si oppone alla perseveranza nella cella e alla vita solitaria. Per Giovanni Climaco il rimedio più efficace è, co­me per la tristezza, il pénthos.

La vanagloria

La Bibbia ha collegato la gloria alla sfera dei valori morali e religiosi; in Dio è infatti il solo fondamento solido della gloria (Sal 62,6.8). La gloria è dunque «vana» quando cerca la ricompensa delle virtù nell’ammirazione degli uomini. Cresce con il progresso delle virtù, ma rischia di disperderne il valore.

«Il pensiero della vanagloria è un pensiero sublime che si dissimula facilmente nel virtuoso, poiché desidera render pubbliche le proprie lotte e inseguire la gloria che viene dagli uomini. Essa gli fa immaginare dei demoni che lanciano grida, donne guarite, una folla che tocca il suo mantello; gli predice che ormai diverrà prete e fa sorgere alla sua porta persone che vengono a cercarlo, e che se rifiuta di seguirle lo porteranno via legato».

Una manifestazione di vanità è la parresia (nel suo senso peggiorativo), la disinvoltura eccessiva, gli strani modi di fare con la gente.

Alla vanità bisogna opporre il tò apsephiston, espressione intraducibile e complessa. Consiste nel non attribuirsi, reclamare dagli altri una qualche priorità o distinzione, nell’acconsentire a essere nulla, nel «rinnegare se stessi», e presuppone quindi l’esser pervenuti alla «scienza», alla contemplazione dei veri valori.

L’orgoglio

Per le Scritture l’orgoglio è soprattutto il vizio dei pagani tentati di opporsi a Dio, come è espresso nelle parole di Oloferne: «Chi è Dio, se non Nabucodonosor? » (Gdt 6,2). La dimenticanza di Dio si manifesta già nella vanagloria, e alcuni la considerano infatti una forma meno grave dell’orgoglio. La maggioranza degli Orientali conserva, tuttavia, la distinzione evagriana, fondata sulla diversità degli oggetti per i quali si cerca la stima dell’uomo: possono essere infatti «vanità» (bei capelli, una bella voce, ecc.) che non hanno alcun valore o, al contrario, doni divini della grazia, della santità, per i quali ci si rifiuta, in questi casi, di «riconoscere l’aiuto di Dio».

«Il demone d’orgoglio ha due tattiche – dice Massimo il Confessore – o suggerisce al monaco di attribuire a se stesso le buone opere… oppure… gli ispira disprezzo per i suoi fratelli ancora imperfetti». E’ dunque la tentazione dei perfetti. Gli Apoftegmi mostrano uomini che, dopo una lunga ascesi, sono caduti nell’ékstasis phrenòn, la follia frutto dell’orgoglio.

L’orgoglio è il più grande di tutti i peccati, spiega Origene, è il principale peccato del diavolo e, secondo Giovanni Crisostomo, è «la radice, la fonte, il padre del peccato». Sopravviene alla fine, «quando le passioni sonnecchiano», quando sono stati dominati, in qualche modo, i sette vizi precedenti.

Si può vincere l’orgoglio attribuendo a Dio le proprie buone azioni e, in generale, con l’umiltà: «Il diavolo infatti può imitare tutte le buone azioni che sembriamo fare, ma in fatto di amore e di umiltà egli è autenticamente vinto»

La bestemmia (blasphemìa), poiché è l’inverso della lode che l’uomo deve a Dio, è il segno per eccellenza dell’orgoglio. Gli autori richiamavano l’attenzione anche sulla violenza e subitaneità di questo demone, che si oppone alla preghiera.

La radice di tutti i «logismòi»: la filautia

Gregorio il Grande parla dell’orgoglio come della radice dei vizi; per Evagrio «il primo dei (cattivi) pensieri è quello della filautia (philautìa); da esso vengono gli altri otto». Questa è la dottrina comune dei Padri orientali.

Etimologicamente filautia è l’amore di sé. «L’uomo è per natura amico di se stesso, è legittimo che sia così», dice Platone. Egli nota tuttavia che «di fatto… questo grande amore per se stesso diventa per ciascuno la causa di tutti i passi falsi», Aristotele distingue fra la filautia dell’uomo nobile, che ambisce per sé la virtù, e quella dell’uomo vile, che desidera i beni materiali e i piaceri sensuali.

Per Filone filautia equivale a empietà, e la parola assume sempre più un senso peggiorativo (cfr. 1Tm 3,2). Massimo il Confessore è giu­stamente considerato il grande dottore della filautia. La definisce come «passione verso il corpo», «tenerezza irragionevole per il cor­po». L’opzione fondamentale tra lo spirito e i piaceri dei sensi è, nel suo sistema morale, l’opzione tra la felicità e il piacere. Il phìlautos è «amico di sé contro se stesso». Si passa dalla filautia alla ricerca del piacere sensibile, e così, attraverso tutti i vizi, si arriva all’orgoglio.

La volontà propria 

Come la filautia, la «volontà propria», il thélema ìdion, la volontà carnale, tò thélema sarkikòn, kaòn, poneròn, idìa synesis, idìa kardìa, è un desiderio contrario alla vera natura dell’uomo. Pochi autori nella storia della spiritualità cristiana hanno segnalato con tanta insistenza il pericolo della volontà propria come ha fatto Doroteo di Gaza. Do­roteo insiste sulla necessità di abbattere questo «muro di bronzo tra l’uomo e Dio», questo «macigno che respinge», e ce ne dà la descrizione. Essa non è la facoltà deI volere né, propriamente parlando, un atto di volontà opposto, come in Clemente d’Alessandria, alla concupiscenza, è invece il movimento appassionato che segue il logismòs, che tiene dietro al pensiero cattivo. E un’inclinazione, la prospàtheia, il desiderio che sorge immediatamente dopo la rappresentazione.

Alla volontà propria, primo motore, si aggiunge il dikaìoma, la «pretesa di giustizia», la «giustificazione di sé». Invece di stroncare questa attrattiva che segue il logismòs, colui che «fa la propria volontà» trova una conferma, un sostegno, in qualche versetto della Scrittura, in qualche sentenza dei Padri, il che gli fa sembrare di essere sulla via giusta.

Il dikaìoma viene allora accompagnato dalla monotonìa o ostinazione. «Se la pretesa di giustizia presta il suo appoggio alla volontà, finisce male per l’uomo».

 

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