Pubblichiamo il testo della conversazione che Gianpaolo Barra, direttore de “il Timone”, ha tenuto a Radio Maria il 12 giugno 1998, durante la “Serata Sacerdotale”, condotta da don Tino Rolfi. Conserviamo lo stile colloquiale e la divisione in paragrafi numerati, utilizzata per i suoi appunti dall’autore.
Da alcune puntate stiamo affrontando il tema della credibilità storica dei Vangeli. Ci stiamo domandando se i Vangeli sono documenti storici attendibili, credibili, se raccontano fatti realmente accaduti e dei quali essi sono fedeli testimonianze.
Il tema della datazione dei Vangeli è di fondamentale importanza per la credibilità storica dei Vangeli.
Infatti, se i Vangeli sono stati scritti in epoca lontana dai fatti che raccontano, quando i testimoni oculari non esistevano più, quando non vi era chi potesse smentire il loro racconto, ebbe ne, in questo caso, qualcuno potrebbe sostenere che i Vangeli contengono fatti inventati e che la Chiesa primitiva vi abbia furbescamente inserito il racconto di certi miracoli che serviva ad accrescere i pregi, le qualità, la forza di attrazione di quel Gesù di Nazareth che essa andava predicando. Passato lungo tempo, sarebbe stato difficile verificare, controllare, smentire.
Se, al contrario, i Vangeli sono stati scritti in epoca assai vicina ai fatti che raccontano, quando i testimoni oculari erano ancora vivi, quando essi avrebbero potuto smentire il racconto evangelico, allora – lo si capisce bene – sarebbe stato controproducente per gli evangelisti inventarsi fatti non accaduti. Controproducente perché, in un ambiente ostile com’era quello giudaico, l’accusa di essersi inventati le parole, i fatti e i miracoli compiuti da Gesù avrebbe definitivamente minato la credibilità della nuova religione cristiana.
Ecco perché è importante, decisivo, per la credibilità storica dei Vangeli, cercare di avere informazioni riguardo la data della loro composizione.
San Giovanni
Cominciamo la nostra indagine da un dato pacificamente acquisito. Tutti concordano nel ritenere il Vangelo di san Giovanni composto per ultimo, dopo i Vangeli di Marco, Matteo e Luca.
Fino a qualche decennio orsono, gli studiosi datavano il quarto Vangelo verso la fine del I secolo, vale a dire circa 70 anni dopo la morte e la Risurrezione del Signore.
In questo arco di tempo sono successi molti fatti. Gerusalemme è stata distrutta nell’anno 70 dall’esercito di Roma. Israele, disperso, non esisteva più politicamente. Molti testimoni non erano più in vita.
Ecco allora che, o lo stesso apostolo Giovanni, o i suoi amici e discepoli (la cosiddetta scuola giovannea) avrebbero scritto il Vangelo, lo avrebbero attribuito all’Apostolo e, mentre facevano questo, avrebbero aggiunto dati, fatti, miracoli che in realtà Gesù non aveva mai compiuto.
Tuttavia, oggi questa tarda datazione del Vangelo di san Giovanni comincia a scricchiolare. Sembra che la sua composizione, per lo meno di alcune parti di esso, debba essere abbondantemente anticipata.
Julian Carròn, professore di Sacra Scrittura presso il Centro di studi teologici san Damaso, di Madrid, direttore dell’edizione spagnola della rivista internazionale “Communio”, in un saggio apparso sul prestigioso trimestrale “Il Nuovo Areopago”, alla fine del 1994, sostiene che il Vangelo di san Giovanni contiene molti “elementi che sì possono spiegare solo prima della distruzione dì Gerusalemme”, avvenuta – come abbiamo ricordato – nell’anno 70.
Dunque, san Giovanni, che ha redatto il suo Vangelo dopo gli altri tre evangelisti, avrebbe scritto addirittura prima dell’anno 70? L’ipotesi è affascinante.
A sostegno di questa tesi, Julian Carròn cita un chiaro esempio. Riguarda il racconto, che troviamo nel cap. V, della guarigione miracolosa operata da Gesù a Gerusalemme, al bordo della piscina di Betzaetà.
Leggiamo questo brano. “C’è (estin) in Gerusalemme, vicino alla porta delle pecore, una piscina, chiamata in ebraico Betzaetà, con cinque portici, sotto i quali giaceva un gran numero di infermi, ciechi, zoppi e paralitici. [Un angelo infatti in certi momenti discendeva nella piscina e agitava l’acqua; il primo ad entrarvi dopo l’agitazione dell’acqua guariva da qualsiasi malattia fosse affetto]. Si trovava là un uomo che da trent’otto anni era malato. Gesù vedendolo disteso e, sapendo che da molto tempo stava così, gli disse: “vuoi guarire?”. Gli rispose il malato: “Signore, io non ho nessuno che mi immerga nella piscina quando l’acqua si agita. Mentre infatti sto per andarvi, qualche altro scende prima di me”. Gesù gli disse: “Alzati, prendi il tuo lettuccio e cammina”. E sull’istante quell’uomo guarì e, preso il suo lettuccio, cominciò a camminare” (Gv 5,2-9).
Riflettiamo. Giovanni scrive che a Gerusalemme “c’è” una piscina. Mentre racconta questo episodio, a Gerusalemme “c’è” (in greco “estin”) una piscina. Ora, questo Giovanni lo poteva scrivere solo prima dell’anno 70, perché in quell’anno i Romani distruggono tutta Gerusalemme e di quella piscina rimangono solo rovine.
Se avesse scritto il suo Vangelo dopo l’anno 70, san Giovanni avrebbe dovuto dire: “C’era a Gerusalemme”, cioè avrebbe dovuto usare il tempo passato. Come usa il tempo passato “Gesù disse – rispose – guarì -cominciò a camminare – etc” per raccontare la guarigione dell’ammalato che era accaduta qualche anno prima.
Dunque, sembra ci sia qualche buona ragione per retrodatare il Vangelo di san Giovanni – o una parte di esso – di almeno 30 anni, farlo risalire a prima dell’anno 70.
Questa è una prima indicazione importante. Capite bene che se san Giovanni racconta questo miracolo quando quella piscina c’è ancora, quando sono ancora in vita quelli che hanno visto Gesù compiere questo miracolo, quando qualcuno dei testimoni avrebbe potuto smentire l’apostolo Giovanni, ecco se san Giovanni – dicevo – racconta il miracolo senza timore di essere smentito è perché il miracolo è effettivamente accaduto.
È l’unica ragione plausibile. Anche se l’ambiente era ostile, se i Giudei avevano da poco fatto crocifiggere Gesù, Giovanni non si preoccupa di eventuali smentite. Egli è testimone oculare dei fatti che racconta e dice il vero.
San Matteo
Si sa che i Vangeli di Matteo, Marco e Luca sono stati scritti prima del Vangelo di san Giovanni. Possiamo saperne qualcosa di più?
Per il Vangelo di san Matteo abbiamo un dato straordinario. In uno dei “college” dell’Università di Oxford, il Magdalen College, si trovano tre piccoli frammenti, di dieci righe complessivamente, scritti in lingua greca, del capitolo 26 del Vangelo di Matteo.
Questi frammenti, che contengono brani della storia della passione di Gesù, furono ritrovati a Luxor, in Egitto, e portati a Oxford da un pastore anglicano.
Essi erano stati datati, nel 1901, intorno al IV secolo; poi, nel 1953 sono stati ulteriormente studiati e ridatati alla fine del II secolo, intorno all’anno 200. Molto antichi, come si vede, ma certamente non così antichi da avere particolare importanza per la storicità del contenuto.
Ma uno studioso tedesco di religione luterana, un papirologo di fama mondiale, Carsten Peter Thiede, ha recentemente ripreso in mano questi frammenti e li ha sottoposti a nuovi esami per essere più sicuro della loro datazione.
Li ha esaminati con speciali apparecchi scientifici, per esempio con il microscopio a scansione laser. Quale sorpresa di fronte ai risultati di questa indagine: questi frammenti risalirebbero ad un periodo che va dal 50 al 70 dopo Cristo, preferibilmente intorno all’anno 66 o anche prima.
Infatti, noi possediamo un documento, per la precisione una lettera che è stata scritta proprio in quegli anni. Questa lettera ha la stessa identica grafia dei papiri del Vangelo di Matteo conservati al Magdalen College. E questa lettera riporta la data della sua composizione: “dodicesimo anno dell’imperatore Nerone Claudio Cesare Germanico”, anno che corrisponde al 65-66 del la nostra era.
Ora, tornando al papiro di Matteo, sembra plausibile il fatto che nell’anno 66 dopo Cristo esistesse il Vangelo di Matteo in lingua greca. I tre frammenti conservati ad Oxford sarebbero la prova.
Ma – ecco il dato interessante – noi sappiamo che san Matteo ha scritto il suo Vangelo in lingua ebraica. Quindi, quei frammenti non sono l’originale di Matteo, sono una traduzione in lingua greca.
Ma ciò significa che Matteo ha scritto il suo Vangelo in lingua ebraica ben prima dell’anno 65-66. Ha scritto in un’epoca straordinariamente vicina agli eventi vissuti da Gesù – che Matteo racconta -, quindi quando molti testimoni oculari potevano smentire i fatti narrati da lui narrati; quando era assai pericoloso per le sorti della nuova religione – dato l’ambiente giudaico ostile – inventarsi favole e metterle per iscritto, facendole circolare.
Quindi anche il Vangelo di san Matteo potrebbe essere stato scritto dopo pochi anni, forse solo due decenni dopo la morte del Signore.
San Marco
Chiudiamo la nostra conversazione con un dato straordinario. Esso riguarda la datazione del Vangelo di san Marco.
Questo dato ci è offerto da un minuscolo frammento di papiro, che viene catalogato dagli studiosi con la sigla 7Q5.
Tale sigla ha un significato: “7” sta ad indicare la settima grotta di Qumran dove è stato trovato il frammento. “Q” sta ad indicare Qumran e “5” è il numero delle righe su cui sono disposte le venti lettere riportate nel frammento.
La storia del suo ritrovamento merita di essere ricordata.
Qumran è il nome di una località situata in riva al Mar Morto. Ai tempi di Gesù, lì viveva una fiorente comunità di monaci Esseni. Le rovine del loro monastero sono ancora oggi visibili.
Nell’anno 68 (tenete bene a mente questa data) arrivano a Qumran i Romani. I monaci abbandonano il monastero e nascondono nelle grotte situate nei paraggi i rotoli preziosissimi della loro biblioteca. Tra questi rotoli vi erano i libri della Sacra Scrittura, dell’Antico Testamento (per la precisione).
Per quasi 1900 anni nessuno si preoccupa di recuperare questa straordinaria biblioteca.
Ma nel 1947, alcuni pastori palestinesi scoprono, casualmente, in una di quelle grotte, alcune anfore piene di rotoli, quelli nascosti dai monaci Esseni. La scoperta sembra provvidenziale: per cercare una capra, un pastore getta un sasso nella grotta dove pensava si fosse nascosta, e qui sente un rumore strano: entra e vede queste anfore.
Iniziano le ricerche e in altre dieci grotte si trovano anfore e rotoli, contenenti parte della biblioteca dei monaci Esseni.
GIi studiosi procedono all’identificazione del prezioso materiale ritrovato. Naturalmente, con la scusa che si dava per scontato che i Vangeli fossero stati scritti dopo l’anno 70, nessuno prende in considerazione l’ipotesi che nella biblioteca degli Esseni (biblioteca messa in salvo nell’anno 68, ricordate) ci fossero testi evangelici.
Un frammento in lingua greca (tenete a mente questo dato fondamentale), appunto il frammento 7Q5, non riusciva ad essere identificato.
In nessuna parte dell’Antico Testamento, ma anche in nessun altra opera greca si trovavano 20 lettere disposte su cinque righe, come le con teneva il frammento 7Q5.
Uno studioso di fama internazionale, il gesuita José O’ Callaghan, papirologo e docente – allora – del Pontificio Istituto Biblico di Roma, studiando il frammento, ha un’intuizione.
Nella quarta riga si leggono 4 lettere: “N”, “N”, “E”, “S”. (nnes). Queste lettere potevano costituire una parte della parola “Gennesaret”, il lago di Gennesaret, di cui parla il Vangelo di san Marco.
Inizia accurate ricerche nel 1972 e scopre che anche le altre 16 lettere coincidono con i versetti 52 e 53 del capitolo VI del Vangelo di san Marco.
Quando pubblica i risultati delle sue indagini, incoraggiato dall’allora rettore del Pontificio Istituto Biblico, Mons. Carlo Maria Martini, oggi Arcivescovo di Milano, il mondo degli studiosi è scosso. Quasi nessuno accetta questa interpretazione: per tutti era impossibile che a Qumran, prima dell’anno 68, fosse giunto il Vangelo di san Marco. Si credeva che Marco avesse scritto dopo l’anno 70.
Queste critiche ottengono un risultato. Per 14 anni nessuno parlerà più dell’ipotesi di O’ Callaghan.
Ma nel 1986, lo studioso luterano Carsten Peter Thiede, papirologo, riprende gli studi di O’ Callaghan. E giunge agli stessi risultati: si tratta di un papiro che riporta il Vangelo di san Marco.
Scoppiano, come 14 anni prima, violentissime polemiche, ma questa volta il numero degli studiosi che attribuisce il frammento 7Q5 al Vangelo di Marco cresce; molti sono illustri studiosi e nel mio “Perché credere” riporto i loro nomi.
Le ricerche prendono slancio. I paleografi, studiosi di scritture antiche, Schubart e Roberts datano il frammento 7Q5 all’anno 50 d. C. Strabiliante: questo frammento è parte di un papiro scritto nell’anno 50 dopo Cristo.
Ma la meraviglia non sta tutta qui. Il fatto è che quel frammento è in lingua greca. Invece, san Marco ha scritto in lingua ebraica, come attestano tutte le fonti e il più grande conoscitore del XX secolo di lingue semitiche, il padre Jean Carmignac, recentemente scomparso.
Questo significa che quel frammento non è l’originale di san Marco, ma una sua traduzione in lingua greca.
Nell’anno 50 dopo Cristo il Vangelo di san Marco era già stato tradotto in greco. Ma ciò comporta che Marco aveva scritto prima dell’anno 50.
Molto probabilmente, san Marco ha scritto a Roma, sotto dettatura di san Pietro, nell’anno 42, quando il Principe degli Apostoli arriva nella capitale dell’impero e comincia a predicare.
Siamo di fronte ad un dato straordinario. San Marco scrive solo dodici anni dopo la morte di Gesù.
È troppo vicino il Vangelo di san Marco alla vita vera di Gesù per ritenere possibile inventarsi dei miracoli. Troppi testimoni oculari erano vivi e avrebbero potuto smentire.
Se san Marco scrive in epoca così vicina e non teme di venir letto da chi ha visto quello che lui scrive, la sola ragione plausibile è che san Marco sa bene che quello che scrive è realmente accaduto.
Teniamo presente – giova ricordarlo – che l’accusa di essere un’invenzione avrebbe definitivamente squalificato i Vangeli. Teniamo presente che i Vangeli vengono scritti con lo scopo di convincere i lettori della bontà dei fatti che riguardano Gesù, per guadagnare questi lettori alla Religione cristiana, alla Chiesa cattolica.
Questo scopo sarebbe stato definitivamente vanificato se un solo testimone, credibile, avesse potuto dimostrare che i Vangeli non dicevano cose vere.
Ora, abbiamo detto che se i Vangeli fossero stati scritti quando tutti i testimoni oculari erano morti o dispersi (dopo l’anno 70), l’accusa di contenere invenzioni può difficilmente essere contrastata.
Ma, se i Vangeli sono stati scritti – come sembra ben dimostrato – in epoca vicina, non si può sostenere che la Chiesa primitiva abbia aggiunto al Gesù della storia un altro Gesù (quello cosiddetto “della fede”), cioè un Gesù cui sono stati attribuiti i miracoli solo per guadagnare il consenso dei lettori.
In conclusione: la vicinanza degli scritti evangelici con i fatti che raccontano costituisce un punto fondamentale a favore della loro credibilità storica.
Per questa sera credo che basti. Grazie.
BIBLIOGRAFIA
Stefano Albereto, Vangelo e storicità BUR, Milano 1995
Carsten P. Chiede, Testimone oculare di Gesù. La nuova sconvolgente prova sull’origine del Vangelo Piemme, Casale Mon.to (AL) 1996
Carsten P. Chiede, Il papiro Magdalen. La comunità di Qumran e le origini del Vangelo Piemme, Casale Mon.to (AL) 1997
Eugenio Dal pane, [a cura di], Ciò che abbiamo visto. Storicità dei vangeli e diffusione del Cristianesimo Itaca, Castelbolognese (RA) 1996
Il Nuovo Areopago, anno 13, n.3 (51), autunno 1994
IL TIMONE N. 17 – ANNO IV – Gennaio/Febbraio 2002 – pag. 64 – 66
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